#iorestoacasa, anche i giocatori “scendono in campo”

In un momento particolarmente complesso per tutto il Paese, anche i calciatori della Serie BKT vogliono fare la loro parte. Non sui tradizionali campi, i rettangoli verdi su cui siamo soliti vederli, ma a casa per promuovere le iniziative legate allo slogan #iostoacasa, l’impegno chiesto a tutti i cittadini per contrastare l’emergenza Covid-19. E allora, a partire da un’idea del sito gianlucadimarzio.com, ecco alcune sfide particolari dei calciatori del campionato cadetto: da Settembrini che prepara le tagliatelle a Sciaudone in casa a giocare con i figli, passando dalla “Casa de Manuel” di Iori. Insomma, un mix che non passa di certo inosservato e che accompagna i tifosi che in questo momento da casa possono comunque apprezzare le gesta dei propri beniamini sperando che il prima possibile si possa tornare in campo, quello vero.

Il ragazzo della porta accanto: B Marzio con Varnier per raccontare Cittadella

L’allenamento lo ha sempre fatto prima ancora di arrivare al campo. Marco Varnier lo racconta con il sorriso sulle labbra. “Ogni giorno quando arrivavo a Cittadella avevo praticamente già fatto un bel po’ di lavoro” ma guai a sentirlo parlare di fatica. “Per me giocare a calcio è sempre stata una passione infinita ed è per questo che ogni sacrificio l’ho fatto con la massima serenità”. Sacrifici ne ha fatti tanti, come quello quotidiano di arrivare da Padova a Cittadella. Una sorta di collezione di mezzi di trasporto. “Bici da casa a scuola e da scuola poi l’autobus per la stazione, il treno per Cittadella e per finire una bella passeggiata fino al campo di allenamento”. Quando oggi si guarda alle spalle e ripensa alla strada (nel vero senso della parola) che ha fatto per arrivare a giocare in prima squadra si può dire davvero orgoglioso. Chilometri macinati a fin di bene, perché un anno fa è arrivato l’esordio in B: “non me lo aspettavo e ammetto che è stata un’emozione unica perché con questa maglia ci sono cresciuto e vedevo i grandi della prima squadra come dei veri e propri modelli irraggiungibili”.

Ha fatto tutta la trafila Marco e alla fine ce l’ha fatta. Una scalata partita dagli allievi del settore giovanile del Cittadella e arrivata alla gara con la Virtus Entella nello scorso campionato. “Ma per me la vera soddisfazione è stata la conferma della settimana successiva perché significava che avevo convinto l’allenatore e i compagni”. Dopo tanti anni il Cittadella è diventata una seconda famiglia. “Praticamente sto più tempo qui che a casa. Non solo i compagni ma anche i magazzinieri e tutti quelli che lavorano dietro le quinte mi trattano come un fratellino più piccolo. E’ bellissimo”.

Marco il calcio lo ha iniziato a seguire con suo padre anche se i due non condividono la stessa fede. “In casa è un derby fisso: Inter-Milan”. Lui tiene per i nerazzurri, anche se il suo idolo ha vestito la maglia rossonera. “Mi è sempre piaciuto da morire Alessandro Nesta, che poi credo sia un punto di riferimento per tutti quelli che fanno i difensori centrali”.

Anche oggi che è stabilmente un giocatore della prima squadra, Marco non ha cambiato le sue abitudini. “Vivo a Padova e frequento gli amici del liceo”. Si ferma a Cittadella solo qualche volta. “E in quei casi chiedo ospitalità a qualche compagno, tanto andiamo tutti d’accordo ed è anche divertente stare insieme fuori dal campo”.

Quando non si allena, e non è in viaggio tra Padova e Cittadella, gli piace guardare la tv o andare al cinema. “Genere preferito: fantascienza. Film preferito: Interstellar. Ma non solo”. Oltre al cinema ha anche una  passione per l’Nba: “perché è uno sport molto spettacolare”. Anche quello è faticoso eh, ma nulla a che vedere con le sue lunghe giornate su e giù per il Veneto per coronare il suo sogno di Marco Varnier che si chiama Cittadella.

Quando il calcio è questione di famiglia: B Marzio presenta Deli

Non ci pensa neanche un secondo. Francesco Deli ha le idee chiarissime: “idoli? Uno solo. Mio padre”. Il centrocampista del Foggia non ha dubbi perché a papà Claudio deve la sua passione per il calcio. E forse anche la sua carriera. Se un anno fa è stato tra i protagonisti della promozione del Foggia in B è merito di un amore per questo sport nato sui campi di provincia. “Andavo sempre a vedere le partite di mio padre e lì mi sono innamorato”.

Fare su e giù tra la sua Roma e il suo Foggia gli riesce solo quando ha qualche giorno libero in più,  diversamente è la sua famiglia ad andarlo a trovare perché dopo il calcio i legami sono al secondo posto nella sua scala dei valori. “Ho preso il numero 18 perché è associato alla data di nascita dei miei fratelli. Ecco perché non ho avuto dubbi nella scelta”. Anche loro, come lui, giocano a calcio. “Sono più piccolini di me, uno gioca nelle categorie juniores vicino casa, mentre l’altro vuole addirittura fare il portiere”. Ride perché sa che a breve potranno fare una piccola squadra di calcetto di famiglia. “Con mio padre gioco spesso d’estate, anche se lui non vuole troppo perché è rosicone e non vuole perdere. Chi è più forte? Impossibile da dire, anche se ogni tanto mi capita di incontrare qualcuno che mi dice ‘sei più forte tu’, ma io non credo”.

A Foggia, intanto, si è creato il suo piccolo mondo. “Quando ho tempo libero mi dedico al cinema. Di ogni tipo: non faccio preferenze. Anche se al primo posto metto i film d’azione americani”, ma poi c’è da accontentare anche la dolce metà. “Quando mi viene a trovare la mia fidanzata però vediamo qualche commedia italiana. Più leggera, così anche lei è contenta”. E poi c’è l’Nba. “Sono un grande appassionato di questo sport spettacolare. Condivido la passione con Agazzi e spesso ci vediamo anche le partite insieme. Senza fare le 4 del mattino, certo, ma cerchiamo di non perdercene una”. Ecco perché in camera da letto non ha la maglia di un idolo calcistico, ma di un giocatore di basket. “Sono stato sempre un fan di Minnesota Timberwolves e allo stesso tempo di Jimmy Butler, quando poi in estate è andato a giocare lì è stato il massimo”.

Quasi un anno fa Francesco è stato tra i protagonisti della promozione del Foggia in B. “Un’emozione indescrivibile. Qualcosa di unico. Ho pianto per la gioia”. E quelle non sono state le uniche lacrime della stagione scorsa. “Ammetto di essermi commosso quando Francesco Totti ha dato l’addio al calcio. Sono romano e romanista e per tutti i ragazzi della mia generazione lui è stato un modello e un punto di riferimento unico”.

Camminando per i corridoi dello stadio Zaccheria di Foggia, però, il poster in bella mostra è il suo, quello di Francesco Deli. “E’ una bellissima emozione. Ogni volta che passo qui davanti sento una grande carica. Mi emoziono tantissimo e mi sento protagonista del progetto e di questa avventura. Foggia è una piazza calda. Per me, è come stare a casa”.

Un olandese dal sangue giamaicano: B Marzio con Anderson

Scusa, possiamo fare un selfie?”. Una frase che diventa un vero e proprio ritornello se ti capita di passeggiare per le strade di Bari in compagnia di Djavan Anderson. E’ vero, l’esterno olandese – di origini giamaicane – ha un look difficilmente confondibile. Merito di quei capelli neri dalle punte biondo platino che spuntano sulla testa. E Djavan non è certo uno che si tira indietro quando c’è da interagire con i tifosi.

Sì, certo”, risponde sempre con un sorriso grande così che si allarga sul volto. Lo fermano praticamente tutti, ma Djavan è un ragazzo alla mano e la parola “no” ancora non è entrata nel suo (seppur ricco) vocabolario italiano. Ecco, un’altra cosa che colpisce dell’esterno del Bari è la sua grandissima padronanza linguistica. “Ci tenevo a imparare subito la lingua, perché mi piace capire cosa dicono i miei compagni e l’allenatore”. E non è tutto. “I magazzinieri mi stanno anche insegnando il dialetto barese. Sono ottimi professori”. Parola d’ordine “Panzerot’”. L’ha imparata praticamente subito, come tutto quello che gira attorno alla cucina locale. “Orecchiette, certo, ma soprattutto pesce. Mi piace tantissimo e qui a Bari lo cucinano in maniera speciale”.

D’altra parte il rapporto con la città è unico. “L’estate scorsa ero qui in vacanza e sono passato dalle parti del San Nicola. Così la mia ragazza, guardando lo stadio mi ha detto: ‘Che bello, sarebbe stupendo se tu venissi a giocare qui’. In quel momento non c’era stato ancora alcun contatto con la società, ma quando mi hanno chiamato ed ho assistito ad una gara del Bari dal vivo mi sono definitivamente innamorato”. E da lì in avanti è stato subito amore. Reciproco. Perché anche Bari si è innamorata di questo ragazzone che corre su e giù sulla fascia e sa anche fare gol.

Difficile essere scettici di Djavan che arriva da una famiglia che ha lo sport nel Dna. “Siamo cinque fratelli, tutti maschi. E siamo praticamente tutti sportivi. Merito di mio padre che è un grande sportivo. Ha una palestra nel Texas dove allena i suoi ragazzi nelle arti marziali”. E non è tutto. “Ho un fratello che fa karatè in Germania e un altro che gioca a basket in Spagna ed è anche in nazionale inglese”. Insomma, una famiglia che ruota attorno allo sport.

Ma per Djavan tutto gira attorno alla famiglia. “Non sono mai stato un appassionato di tatuaggi, poi mia mamma si è ammalata gravemente e dopo che è guarita ho deciso di dedicarne uno a lei. E da lì ne ho fatto anche un altro con una frase che mi diceva sempre mio padre”. Entrambi sulle caviglie, e poi basta, perché per lui devono solo essere legati a qualcosa. E la vita di Anderson ha sempre un senso ben preciso. Come quando torna in Olanda, nella sua Amsterdam. “E’ l’occasione per me coltivare la mia passione per il pianoforte”, sì avete capito bene. “Ho iniziato a studiare piano classico quando avevo 8 anni e da allora è stato amore a prima vista”, anzi a prima nota. “Ogni volta che torno a casa passo almeno 3 ore al giorno a suonare, anche perché qui a Bari mi manca tantissimo”.

Quello che invece non gli manca affatto è il sole. “E anche il mare. Quando posso vivo la città e i suoi dintorni che sono bellissimi: Polignano a mare, Trani e tutte le località balneari qui vicino. Sempre con la mia fidanzata con la quale stiamo insieme da tre anni”. Anche lei si è abituata al calore della gente di Bari che già adora il suo Djavan. Sorriso, ciuffi biondi e parlantina contagiosa.

B Marzio fa tappa a Monteboro: la fabbrica dei talenti dell’Empoli

Nel centro sportivo di Monteboro ci sono tre edifici e almeno 5 campi da calcio. Ma non si vede il pozzo miracoloso. La fonte dalla quale evidentemente viene fuori dell’acqua dai poteri magici grazie alla quale l’Empoli è riuscito a far crescere i ragazzi di un settore giovanile che non finisce mai di sfornare talenti.

Qui si cresce come a casa propria”, musica e parole sono di Alessandro Piu, attaccante dell’Empoli che a Monteboro per la prima volta ci ha messo piede a 13 anni. “Non è mai facile lasciare la famiglia ma a Empoli  mi hanno accolto alla grande. Ho vissuto nel convitto con gli altri ragazzi del settore giovanile, avevamo anche un tutor che ci seguiva negli studi ed infatti io mi sono anche diplomato qui”. Parla e cammina, ripercorrendo quelli che sono stati i primi passi della sua gioventù a Monteboro. “Quando sono diventato maggiorenne ho preso casa a Empoli ma questi luoghi mi riportano sempre tanta allegria e momenti indimenticabili”. Durante la passeggiata per l’hotel dove Alessandro “è diventato grande”, ci sono i ragazzi del settore giovanile di oggi. Studiano via Skype con i compagni e i professori, consumano il pranzo e si preparano per l’allenamento del pomeriggio.

Osserva con sguardo molto interessato Ismael Bennacer. Anche lui ha appena 20 anni ma ad Empoli è arrivato all’inizio di questa stagione. Lui, nato in Francia da mamma algerina e papà marocchino,  il settore giovanile lo ha fatto in Inghilterra, all’Arsenal, ma le strutture del centro di Monteboro lo affascinano molto perché non sono poi così differenti da quelle dove è cresciuto: “si vede che qui c’è grossa attenzione per i giovani”.

A soli 20 anni ha già una storia da adulto: “sono sposato da 3 anni e prima del matrimonio sono stato fidanzato per altri tre”. Alessandro Piu sorride: “io non potrei mai essere sposato. Lo invidio perché ha davvero un bel coraggio”. Scherzano insieme. Perché anche questo è sintomo di aggregazione e integrazione. “Per la sua cultura – spiega Alessandro – sposarsi così giovani è la normalità. Lo rispetto e lo ammiro”. E poi Ismael racconta. “In ritiro di solito dormo in camera da solo, così quando mi sveglio la mattina presto per pregare non do fastidio al mio eventuale compagno”. Ma Alessandro controbatte: “ma non è vero dai. Io con te ci ho dormito una volta e non mi sono accorto di nulla. Sei un ragazzo molto rispettoso degli altri”.

La passeggiata procede. Dall’hotel dove l’Empoli (dei grandi) va in ritiro prima delle partite di campionato al campo dove Alessandro ha giocato le sue prime partite e ha segnato i suoi primi gol. “E’ bellissimo”, esclama Bennacer. “E non sai che soddisfazione quando noi della Primavera giocavamo di domenica mattina e quelli della prima squadra si mettevano a bordo campo a guardarci. Per noi era uno sprone a fare sempre meglio”, replica Alessandro.

E’ il primo anno che giocano insieme, ma è come se si conoscessero da una vita. Ismael sta imparando l’italiano, ma si fa capire alla grande. “Nello spogliatoio si è integrato subito e poi è talmente forte in campo e in allenamento che in pochi giorni era già un leader”. Come a tavola. “Riso a volontà, ma anche uova all’occhio di bue. Sono stati i miei compagni a insegnarmi che si dice così ed ora lo chiedo sempre quando siamo a pranzo”. Aggiunge Ismael con una risata.

Entrambi sono tipi casalinghi. “Al massimo una partita alla Play – racconta Alessandro – ma contro Ismael è meglio non giocare. E’ troppo forte”. Ridono entrambi. “Ho scelto la maglia numero 10 perché è il giorno della data di nascita di mia sorella, e poi il mio idolo è Ronaldinho”, spiega Bennacer. “Con la mia famiglia ho un rapporto molto stretto. Quando possono vengono in macchina dalla Francia per seguire le mie partite, anche perché io difficilmente riesco ad andare a trovarli lì”. La famiglia di Alessandro, invece è a Gonars in Friuli e lo segue praticamente ovunque: “la prima volta che sono stato convocato in prima squadra, hanno seguito la partita al bar della città. Il mio è un piccolo centro, si conoscono tutti e quello è stato un giorno indimenticabile”.

Come l’esperienza a Monteboro: la fabbrica di talenti fatti in casa dall’Empoli.

Dal Senegal a Cesena con tappa a Pescara: Coulibaly e Valzania con B Marzio

Gli opposti si attraggono. Le leggi della fisica difficilmente sbagliano. Succede anche in campo, e succede sopratutto nel centrocampo del Pescara. Lì, infatti, si sono trovati Luca Valzania e Mamadou Coulibaly. Arrivano dai poli opposti: il primo da Cesena, due ore di auto e famiglia a portata di mano, il secondo da Senegal, ore ed ore di volo e mamma e papà che non vede da tre anni.

In Italia Mamadou è arrivato dopo uno “scalo tecnico” in Francia. “Quando sono scappato dal Senegal ho fatto un viaggio lunghissimo”. Prima il Marocco, poi tutte speranze in un barcone diretto in Francia. “Lì sono stato accolto da mia zia che dopo un anno mi ha cacciato. E io da quel momento non ho voluto più avere contatti con lei, anche se quando poi sono diventato un calciatore ha provato a chiamarmi”. Il legame, quello forte ed inossidabile, è con il papà: “ci sentiamo sempre dopo le partite, e quando posso gli mando i miei video, visto che lui è in Senegal e non ha modo di seguirmi in tv”. Al Pescara è arrivato dopo essere stato accolto in una casa famiglia a Roseto: “il primo giorno di allenamento ero con la Primavera. Dopo la doccia mi ha fermato Oddo e mi ha detto di cambiarmi di nuovo perché avrei dovuto fare anche la seduta con la prima squadra. E’ stato un po’ faticoso, lo ammetto, ma anche una grande soddisfazione”.

Decisamente meno faticosa la trafila di Luca Valzania: “i miei genitori mi seguono sempre. Anzi, alle volte sono fin troppo presenti”, aggiunge con un sorriso. “Essermi allontanato da casa mi sta facendo bene e mi aiuta nel percorso di crescita”. Per tenersi ancora un po’ bambino, però, non ha perso la sua grande passione per le serie tv legate ai personaggi dei fumetti: “fin da piccolo ne sono stato appassionato perché anche con gli amici era una vera e propria fissa”. E guardando Mamadou al suo fianco gli viene anche da fare un paragone: “a giudicare dai suoi poteri in campo e dalla sua grande forza fisica, direi che mi ricorda Luke Cage, il personaggio dei fumetti diventato celebre per essere quasi del tutto invulnerabile“.

In campo si compensano, alla fisicità di Mamadou si aggiunge l’estro di Luca: i poli opposti che si attraggono. Anche in ambito sentimentale. “Il numero 14 che porto sulla maglia è legato alla data di nascita della mia ragazza – spiega Valzania – mi porta fortuna, lei è contenta e non mi mette troppe pressioni”. Non esattamente lo stesso pensiero del suo compagno di squadra e di reparto. “Anche io sono fidanzato, ma l’unica donna della mia vita è mia mamma e lo sarà per sempre. Anche in caso di gol lo dedicherei certamente a lei”.

Dopo tre anni in Italia, Coulibaly – con la C e non la K perché a differenza del difensore del Napoli, lui è di origini Malesi – parla un italiano praticamente perfetto: “merito delle persone che mi circondano. Se mi fossi fermato solo con i senegalesi, ora non saprei una sola parola. Invece stando in mezzo a tanti italiani, ho imparato subito”. A casa guarda la tv e sopratutto il calcio: “quello inglese mi piace moltissimo, ed i miei idoli sono Yaya Tourè e Obi Mikel. Se sono scappato dal Senegal è stato sopratutto per la mia grande passione per il calcio. Mio padre voleva che studiassi ma a me la scuola non è mai piaciuta: volevo solo giocare a pallone”. Luca – diplomato in ragioneria – ha invece avuto un’infanzia divisa tra due grandi passioni: “ho iniziato a giocare a calcio fin da piccolo perché avevo un campetto proprio dietro casa ma il mio primo sport è stato il nuoto. A lungo sono stato indeciso sulla scelta, ma alla fine ora sono contento di quello che ho fatto”. “E hai fatto bene – gli replica subito Mamadou – perché il calcio è molto più bello. E tu sei anche fortissimo. Molto più forte di me”, aggiunge ancora con una risata.

In campo si intendono a meraviglia, e nonostante abbiano storie molto diverse, si intendono anche fuori. E’ proprio vero allora: gli opposti si attraggono.

Dal ballo al calcio: B Marzio è con Castrovilli

Quindi ti possiamo chiamare #CastroBilly?”. Gaetano Castrovilli sorride e annuisce. Lui il film del 2000 lo conosce bene. E in quel personaggio si rivede eccome. Perché da piccolo anche Gaetano voleva fare il ballerino, e a dirla tutta ce l’ha anche fatta. “Per un anno ho fatto danza classica, poi ho mollato”. E ride. “Perché ero l’unico maschietto in una classe tutta al femminile”. Ok, lasciare il corso professionistic, ma la passione per la danza e per la musica è rimasta. “Anche adesso appena sento un po’ di musica inizio a ballare. Soprattutto se si tratta di reggeaton e balli di gruppo latino americani”. Intanto però la sua sua vita ha preso una strada diversa ed il calcio ha preso il sopravvento.

Tutto  merito di mio nonno – spiega – perché lui era un grande tifoso del Bari e quando è morto ho deciso di iscrivermi a scuola calcio”. Aveva nove anni Gaetano (che si chiama proprio come il nonno che non c’è più) e dopo due mesi ha fatto – e superato – il provino con il Bari. “Mi sono presentato lì con la maglia del Barcellona di Ronaldinho. Mi guardavano tutti strano, ma dopo che mi hanno preso si sono ricreduti. Pensavano volessi fare il fenomeno”. Da casa sua, Minervino Murge (in provincia di Andria) a Bari era un bel viaggio. “Quasi 200 chilometri tra andata e ritorno che facevo ogni giorno in auto con mio zio Nimbo. E’ anche merito suo se adesso sono diventato un calciatore professionista”. Sono legatissimi, come lo era con il nonno Gaetano e come lo è con la mamma. “Se non ci sentiamo almeno 5 volte al giorno non è contenta”. Dici poco ma da quando Gaetano si è trasferito a Cremona il loro legame si è rafforzato ancora di più: “questa esperienza lontano da casa mi sta aiutando a crescere. Mi sento una persona migliore e più matura”.

Ha già segnato il primo gol con la maglia della Cremonese, all’esordio casalingo contro l’Avellino, ma il suo sogno è quello di poter festeggiare sotto la curva dei tifosi storici dello Zini: “ci spingono tantissimo e mi piacerebbe dedicare loro qualche passo di danza”. Anche perché il calcio e il ballo non sono poi così distanti. “Molto spesso mi capita di pensare a una finta, a un dribbling o a una giocata e paragonarla ad un passo di danza. Mi viene più naturale”.

Naturale, certo, come scherzare con il magazziniere della squadra che proprio Gaetano ha soprannominato Tati: “quando sono arrivato è stato lui a farmi trovare la maglia al mio posto e abbiamo legato tantissimo”. Scherzano anche adesso mentre alle sue spalle si vede la sua numero 6: “ho sempre vestito la 10 e il mio sogno è quello di poterla indossare anche tra i professionisti, ma per ora devo lavorare e pensare a migliorare con la 6 dietro le spalle”. Con la Cremonese, ovviamente, ma anche con la Nazionale. “Quando ho esordito con l’Under 20 ho segnato subito una doppietta: è stata un’emozione unica. Qualcosa di indescrivibile. Il giorno in cui ho ricevuto la chiamata l’ho subito detto a mia mamma che è stata addirittura più felice di me”.

E ora? Gioca, segna e balla: come non potrebbe Gaetano Castrovilli? Ma d’ora in poi chiamatelo pure #CastroBilly.

Bosnia e Italia unite dal calcio: Saric racconta Carpi a B Marzio

L’accento perfettamente italiano potrebbe farci cadere in un clamoroso errore. Dario Saric, infatti, è nato in Italia, ma le sue origini sono bosniache, e lui di queste origini ne va particolarmente fiero. Merito di una famiglia che gli ha saputo trasmettere valori solidi, anzi solidissimi. Ha un più di un idolo nel mondo del calcio, ma il suo unico eroe è suo padre. “Lo considero una persona speciale. Siamo legatissimi”, ed è proprio per “merito” di suo padre se Dario è nato in Italia (in provincia di Ferrara) 21 anni fa. “Insieme con mia mamma sono scappati dalla guerra perché lui era stato gravemente ferito e aveva bisogno di cure all’avanguardia che solo in Italia potevano offrigli”. Da lì è iniziata anche la storia di Dario e di suo fratello più grande, entrambi nati nel nostro paese. “La mia famiglia è originaria di Sarajevo e in Bosnia ci sono tornato quando ero piccolo per le vacanze estive. Poi mi è capitato di andarci anche a giocare con la Nazionale”. Fino ad ora lo ha fatto sempre con quella della Bosnia, ma qualora dovesse arrivare una chiamata da parte dell’Italia non gli dispiacerebbe affatto. “Sono nato e cresciuto qui, l’Italia è il mio Paese”. Calcisticamente, invece, è cresciuto nel Carpi, una società che lo ha portato a giocare nei professionisti. “Praticamente qui mi sento a casa. Ho vissuto per 4 anni in convitto insieme agli altri ragazzi del settore giovanile e ogni settimana eravamo qui al Cabassi a seguire le partite della prima squadra. Questo stadio ci sembrava un sogno, e adesso che in mezzo al campo ci sono io mi sembra davvero tutto bellissimo”.

Inutile dire che ospiti fissi in tribuna ci sono mamma e papà. “Non se ne perdono una, sono i miei primi tifosi. Anche perché non abitano troppo lontano da Carpi e quindi per loro venire il sabato allo stadio è una passeggiata”. A proposito di distanze e di passeggiate, Dario ne fa una fissa tutti i giorni. “Quest’anno ho preso casa in centro, ma per andare allo stadio per l’allenamento o la partita ci metto un attimo. Ci vado a piedi o al massimo in bici. L’ho portata qui apposta per fare una pedalata ogni tanto”.

E’ un ragazzo casalingo (con la passione per la cucina), ma non per questo è timido, anzi. “Mi piace molto confrontarmi con i compagni e ricevere i consigli da quelli più grandi. Qui ci sono Mbakogu e Poli che mi stanno molto vicino e mi seguono passo passo per farmi crescere sempre di più”. Nonostante la giovanissima età ha già collezionato 17 presenze in questo campionato diventando quasi un punto fisso nella squadra.

Eppure, digitando su google la prima cosa che viene fuori è Dario Saric, giocatore croato di pallacanestro. “Lo so – ammette con un sorriso – ed è anche molto forte. Lo seguo spesso, anche perché sono molto appassionato di NBA, e ammetto che mi piacerebbe anche conoscerlo. Chissà, magari un giorno potremo scambiarci le maglie: io intanto lo invito ufficialmente qui al Cabassi per seguire una gara del Carpi”. Un posto in tribuna lo troverà sicuro, magari accanto alla mamma e al papà di Dario, felici di festeggiare insieme ad un altro gigante che si chiama proprio come quel figlio che mette la famiglia sul gradino più alto del podio della sua vita.

Pizza, piadina e cappelletti: Dalmonte e Panico raccontano Cesena

Il biondo e il bruno. Peppe Panico e Nicola Dalmonte si presentano così. Se l’aspetto è diametralmente opposto, la simpatia è un minimo comune denominatore inconfondibile. Scoprire qualcosa in più della loro vita extra calcistica è un susseguirsi di risate, battute e grande allegria. Si prendono in giro quel giusto che non guasta, ma hanno anche quel pizzico di autoironia che rende il mix davvero irresistibile. Come quando Peppe racconta delle sue vacanze. “Non ho mai fatto un viaggio da solo, ma mi piacerebbe andare a Mykonos e Ibiza: due posti decisamente interessanti dal punto di vista culturale”. Ridono insieme, e allora Nicola aggiunge. “Per questa sosta di campionato sono stato qualche giorno in montagna con la mia fidanzata, e tu?”, Peppe subito replica: “Al Pineta”. Poi ci pensa: “E’ un museo di Milano Marittima”. E la risata a questo punto è generale.

Sono due anni oramai che giocano insieme e praticamente hanno anche lo stesso ruolo: entrambi esterni d’attacco, ma la rivalità – nonostante la giovane età – è una cosa che non conoscono. “In questo stadio ho fatto gol proprio su assist di Peppe”, spiega Nicola. “Mentre io qui ancor non ho segnato ma spero di farlo prima possibile”. Sì, anche perché se il compagno non ha un’esultanza particolare, Peppe Panico vorrebbe riportarsi la mano alla fronte con il gesto del saluto militare come ha fatto, ad esempio, contro la Francia nel corso dell’ultimo mondiale Under 20 che l’ha visto tra i protagonisti con la maglia dell’Italia. “Un’esperienza indimenticabile, perché indossare quei colori è qualcosa di unico. Poi avevo ancora il dente avvelenato con la Francia che ci aveva battuto all’Europeo l’anno prima”.

Mentre passeggiano per il prato dello stadio di Cesena ci sono 4 ragazzini del settore giovanile che li osservano. Li hanno riconosciuti, anche se su Panico hanno qualche dubbio. “Forse perché non sono abituati a vedermi con gli occhiali”, spiega l’attaccante. “Eh no, così non ti scambiano per Ciro Immobile”, aggiunte Dalmonte. “La somiglianza fisica c’è tutta, e anche in campo il ruolo non è poi così diverso, anche se Immobile segna di più e gioca più al centro dell’attacco”. Peppe racconta anche del suo incontro con il bomber della Lazio. “Prima al Genoa dove sono cresciuto come settore giovanile e poi in Nazionale, mi è capitato di vederlo. Gli ho anche chiesto una foto e gli ho raccontato degli sfottò dei compagni che mi dicevano di essere uguale a lui. Ecco perché qualche mese dopo, durante uno stage della Nazionale, ha chiesto a un amico comune se ci stava pure quello “che mi somiglia”. E’ stato un episodio davvero divertente”.

Dal campo alla lavanderia dello stadio dove Debora, la lavandaia storica del Cesena, li mette subito ai lavori forzati. “Vediamo se sanno piegare i vestiti, oramai sono grandi, vivono da soli e certe cose devono impararle”, spiega con un sorriso. I due si danno da fare e scherzano con Debora: “meglio che la non le diamo una mano, altrimenti facciamo solo disastri”.

Fuori dal campo, poi, Panico ha anche un’altra grande passione. “Mi piace molto la pesca. Quella nei laghetti artificiali”. Ma Nicola non lo ha mai accompagnato. “Lo capisco – aggiunge Peppe – perché magari può essere noioso stare lì due ore senza tirare su nulla. Ecco perché di solito vado con i miei amici vicino casa”. A proposito, se per Peppe la famiglia è lontana – le sue sono origini campane trapiantante nel basso Lazio – per Nicola la musica è tutt’altra. “Vivo vicino Ravenna, quindi a pochissimi chilometri da Cesena. Infatti ogni giorno dopo l’allenamento torno sempre a casa”. Inutile dire che i suoi genitori sono sempre presenti allo stadio “in casa e in trasferta”, ci tiene a precisare. “Ma anche mio padre mi segue sempre”, spiega Peppe. “Salvo le trasferte più lontane da casa, non se ne perde una”.

Intanto squilla il telefono. E’ arrivato un messaggio sulla chat Whatsapp di squadra. Peppe e Nicola hanno mandato una loro foto durante l’intervista. I commenti – molti dei quali irripetibili – sono tanti. Vedere per credere…

Baldini dalla bici al pallone: B Marzio è ad Ascoli

Tutta colpa di una ruota bucata. Ma certe volte non tutti i mali vengono per nuocere. Sì, perché il futuro di Enrico Baldini sarebbe stato nel ciclismo. D’altra parte suo padre il ciclista lo faceva per davvero, ma per far divertire i suoi due figli aveva anche un grosso campo di calcetto nel giardino di casa. “Non si poteva certo giocare 11 contro 11, ma c’erano le porte e così ho iniziato a tirare i primi calci al pallone. E poi è stato calcio tutta la vita”. Enrico lo racconta con un sorriso sornione, quello di chi sa bene che alle volte il destino è scritto fin dal principio.

Da casa è andato via quando era poco più che un bambino, per andare nelle giovanili dell’Inter. “Il primo anno a Milano è stato durissimo perché sentivo molto la mancanza di casa e della mia famiglia”, ma per fortuna c’era il calcio, la passione della sua vita, quella che ancora oggi lo accompagna e che lo ha portato a diventare un calciatore professionista. Da due anni è di proprietà dell’Ascoli e la sua carriera è tutta nel segno del 24 settembre. “In quella data nel 2016 ho fatto il mio esordio in B, e il 24 settembre del 2017 ho realizzato il mio primo gol tra i professionisti”, ma il giorno non è l’unico comune denominatore. “Sia quest’anno che l’anno scorso, la nostra avversaria era il Cesena”.

A 21 anni oramai Enrico ha imparato a vivere da solo “anche se mio padre viene a trovarmi quasi tutte le settimane”, e il suo “piatto” preferito è il tiramisù della mamma. “Come lo fa lei non lo fa nessuno: credo che l’ingrediente segreto sia l’amore che ci mette. Me lo spedisce quando può, io lo conservo in freezer e all’occorrenza lo tiro fuori”. Per il resto dei pasti, poi, ci pensa Filippo Florio, suo compagno di squadra. “E’ specializzato nel risotto ed è il mio cuoco di fiducia. Praticamente mi prepara da mangiare ogni giorno”. E non c’è da stupirsi perché Ascoli per Enrico è diventata una seconda famiglia: scherza con il magazziniere, prepara il caffè ai compagni nel centro sportivo del Picchio Village e ha perfino un saluto tutto personale con il match analist, una sorta di rito fisso che compiono all’inizio di ogni giornata di lavoro.

Ma oltre al calcio c’è di più. “Mi piacciono il basket e il tennis. Roger Federer è uno dei miei grandi idoli, mentre per la pallacanestro seguo molto l’Nba, ma non ho un giocatore o una squadra di riferimento: mi piace guardare le partite in tv, sono un vero spettacolo”. E poi ci sono i viaggi. “La meta dei sogni è rappresentata dalle Maldive, perché mi piace la vacanza in totale relax. Non ci sono ancora stato, ma ho già in mente di andarci quanto prima. Nell’ultimo anno ho fatto un po’ di mare tra Sardegna e Fuerteventura. E poi a casa, perché lì non può mai mancare un po’ di riposo”. A Massa, nella sua Toscana, dove ogni estate viene sempre richiamato dagli amici storici per infinite partite di calcetto sulla spiaggia. La bicicletta è oramai solo un lontano ricordo, come quella ruota bucata che non lo ha rallentato, anzi.