Le 3 tappe di Chiavari per diventare calciatore: B Marzio con Di Paola

Per ogni ragazzo che cresce nella Virtus Entella ci sono tre punti di riferimento: lo stadio Comunale di Chiavari, l’hotel-ristorante Zia Piera e il centro Benedetto Acquarone. “Praticamente il mio percorso ha toccato tutte queste tappe che ancora oggi fanno parte della mia vita”, spiega Manuel Di Paola: ieri ragazzo del settore giovanile, oggi punto fermo in prima squadra.

“Andare via da casa quando si è piccoli non è mai facile ma qui a Chiavari ho trovato tutto quello che serviva per crescere nel modo giusto”. A partire dall’accoglienza al centro Acquarone. “È dove ho trascorso i primi mesi della mia avventura. È la struttura dove i più giovani vengono ospitati dalla società e condividono la propria vita con i ragazzi disabili. Per me è stato un qualcosa di unico perché si tratta di un’esperienza molto formativa”. Il passaggio successivo si chiama Zia Piera. “È un ristorante che si trova proprio sul lungomare e dispone anche di alcune camere. È il punto di ritrovo fisso per i ragazzi del settore giovanile per pranzo e cena. Anche adesso che sono cresciuto e vivo da solo, vengo sempre a mangiare qui, anche perché in cucina sono un mezzo disastro. Il mio piatto forte è la pasta in bianco”.

Che Manuel avrebbe fatto il calciatore, in casa lo avevano capito da subito. “Praticamente gia a 4 anni rompevo di tutto con il pallone”, anche se i primi approcci con questo sport sono stati un po’ strani. “Ho iniziato facendo il portiere. Poi poco alla volta sono diventato difensore e ora gioco anche un po’ più avanti”.

L’Entella è diventata rapidamente la sua nuova famiglia. “Qui ho legato presto con tutti. E d’altra parte mia mamma dice sempre che io farei amicizia anche con i muri”. Tanti amici tra squadra e città, a partire da Don Andrea Buffoli. “Il Don è il numero uno. Per chi come me è cresciuto nel settore giovanile è una guida e un amico. Oltre ad essere il nostro primo tifoso. Mi ha aiutato e mi aiuta ogni giorno come fosse un fratello maggiore. Ma allo stesso tempo è il più severo di tutti quando in campo non rendo al massimo”.

Il giorno dell’esordio di Manuel però le parole indimenticabili sono arrivate da un compagno di squadra. “Quando Aglietti mi ha chiamato e mi ha detto che sarei entrato, ero abbastanza preoccupato. Mentre mettevo i parastinchi mi si è avvicinato Paroni che mi ha detto : ‘Tranquillo, è come giocare in Primavera. Solo che ci sono i nomi dietro le maglie’. Quelle parole non le dimenticherò mai e mi hanno dato una grossa carica”.

Ferdeghini come casa: B Marzio nella “cantera” dello Spezia

Il cartello stradale che indica l’ingresso del centro sportivo dello Spezia ha scritto “Ferdeghini” ma per Pietro Ceccaroni e Gabriele Corbo quel nome si legge come “casa”. Sono cresciuti li, seppur in anni diversi. Pietro è del ‘95, Gabriele del 2000, e oggi condividono lo stesso spogliatoio, quello della prima squadra dello Spezia. “Sono arrivato negli allievi quando questo centro sportivo era ancora in fase di costruzione e ne ho potuto assistere all’intera evoluzione”, spiega Pietro Ceccaroni. “Per me, invece, è stato il vero punto di partenza nella mia avventura allo Spezia”.

Ridono e scherzano tra di loro, sintomo che lo spogliatoio della squadra è bello e compatto, nessuna differenza anche tra due ragazzi che hanno quasi una generazione di distanza. “In questo gruppo anche i senatori ti fanno sentire a casa – racconta Pietro – e anche quando sono entrato io per la prima volta mi hanno accolto a braccia aperte”. Dev’essere anche merito di una mentalità rivolta alla cura e all’attenzione del processo di crescita dei ragazzi. Gabriele è di origini napoletane ma oramai a La Spezia è di casa. “Fin dal primo giorno ho legato con i ragazzi del convitto dove vivo. Siamo un bel gruppo sia dentro che fuori da campo. E ora che mi alleno con la prima squadra mi sono subito sentito a mio agio”. Non ha ancora la patente e per andare agli allenamenti prende un passaggio proprio da Pietro che con la macchina gli fa anche un po’ da autista. “Sono cose normali per noi, anche questo è fare gruppo”.

Gabriele ha esordito in B una settimana fa ad Avellino ma ricorda perfettamente anche l’emozione della prima convocazione. “Quella volta in panchina contro il Palermo è stata bellissima, una cosa che non dimenticherò mai”, mentre per Pietro l’esordio ha fatto rima con vittoria: “e che vittoria. Gol decisivo del nostro difensore centrale all’ultimo minuto”.

Al centro sportivo Ferdeghini però c’è davvero tutto. Campi da allenamento, foresteria per i ragazzi che vengono da fuori e un ristorante caratterizzato da un tavolone a ferro di cavallo dove sullo schienale di ogni sedia c’è un numero, proprio come fossero altre maglie con i colori dello Spezia. “In realtà chi può si siede dalla parte del divano, perché è più comodo – spiega Pietro – ma è molto bello questo tavolo perché rende proprio l’impressione di un’unica famiglia, come quella che creiamo noi in spogliatoio”. In cucina se la cavano bene entrambi e quasi quasi gli viene voglia di mettere su una vera e propria attività. Il piatto forte di Pietro è l’orata al sale, mentre Gabriele è specializzato nella pasta all’amatriciana. Pur abitando a due passi da La Spezia (la famiglia è di Lerici), Pietro ha imparato a vivere da solo e a parte un paio di incidenti domestici con il bucato, è diventato anche un perfetto ragazzo di casa. “Io per ora sono ancora in convitto ma so che dall’anno prossimo dovrò farmi da fare anche in casa”, racconta ridendo Gabriele che a differenza del compagno si concede qualche serata di cinema con gli amici. “Il tempo libero io lo trascorro con la mia ragazza mentre durante le vacanze mi diverto a giocare a tennis”, racconta Ceccaroni.

 

Due ragazzi semplici e dalle abitudini ordinarie. Come quelle che hanno imparato tra le mura del Ferdeghini: la prima casa per tutti quelli che sono cresciuti e crescono ancora nello Spezia.

Il futuro rosanero parla siciliano: B Marzio con Fiordilino (…e La Gumina)

La sfida alla Play con i compagni della stanza accanto? No. In “casa” FiordilinoLa Gumina l’appuntamento fisso è con “La Casa di carta”, serie tv che va seguita solo in ritiro e sempre insieme. “Non esiste che uno dei due durante la settimana si porti avanti con qualche puntata”, racconta Luca Fiordilino che con il compagno di squadra del Palermo condivide la stanza dai tempi dei pulcini. “Ci siamo conosciuti il primo giorno di allenamento e da allora non ci siamo mai persi”. Un’amicizia del segno del Palermo e di Palermo. “Sono nato qui e per me è un orgoglio vestire questi colori, perché mi rappresentano più di ogni altra cosa”.

Impossibile per Luca prendere un’altra strada. “Mio fratello più grande giocava e mio padre faceva l’allenatore del Bagheria, la squadra dove sono cresciuto prima della chiamata da parte del Palermo”. E da quel momento è stato amore. “I due momenti indimenticabili sono il primo allenamento, quando ho anche conosciuto Nino La Gumina, e l’esordio quest’anno contro il Brescia. Per realizzare ho dovuto rivedere le immagini della partita in tv e notare che quello in campo fossi proprio io”.

Luca gioca nel Palermo, ma anche quando è stato fuori per qualche anno in prestito non ha mai sentito la mancanza della famiglia. “All’inizio è stata dura, ma praticamente mi venivano a vedere ogni settimana e quindi la distanza si riduceva”, prima a Cosenza e poi a Lecce. “Due anni nei quali sono cresciuto molto”. Come in cucina. “Ora che sono tornato a vivere a casa ho la mamma che cucina alla grande, ma nel tempo mi sono specializzato nella brace: pollo e carne sono i miei piatti forti”.

Tempo libero tra musica di ogni genere e una lettura particolare. “Il piccolo principe è un libro che ho scoperto grazie a mio fratello e l’ho sempre considerato il mio testo preferito”. Senza dimenticare le serie tv, appuntamento fisso dei ritiri con La Gumina. “Ma non è l’unica cosa che ci accomuna. Quest’anno abbiamo anche dovuto cantare una canzone insieme durante i primi giorni del ritiro estivo. Una sorta di rito per entrare nello spogliatoio visto che eravamo nuovi arrivati. Siamo stonatissimi, ma una strofa a testa e ce la siamo cavata”. La canzone? “Questo piccolo grande amore”: insomma, la giusta sintesi tra la grande amicizia che lega i due ragazzi palermitani ed il loro amore per il Palermo e la città di Palermo.

Umiltà, talento e…la passione per la pizza: Bordin si racconta a B Marzio

Le cose semplici sono il sale della vita di Alessandro Bordin: la famiglia, la pizza e il pallone. “Ho iniziato a giocare quando avevo 6 anni. Da lì mi sono innamorato di questo sport e non ne ho potuto fare a meno. A casa rompevo di tutto ma mia mamma non mi ha mai rimproverato: sapeva che era la mia passione”. È per questo che all’età di 14 anni Alessandro ha lasciato casa per trasferirsi nel convitto di Trigoria. “Quando ho ricevuto la chiamata da parte della Roma è stato il massimo, anche perché la prima persona che mi hanno fatto conoscere è stato Bruno Conti: in due parole, un mito”. Che si piazza sul podio di Alessandro Bordin. “Totti è un dio, una divinità per chiunque sia cresciuto o semplicemente passato dalla Roma, e poi il mio idolo è sempre stato Andrea Pirlo, anche perché come ruolo ricopro il suo”. Ecco perché alla Ternana Unicusano avrebbe voluto prendere il 21. “Ma ce l’aveva un compagno più anziano e mi sembrava giusto lasciarlo a lui”.

 

A proposito di compagni e di spogliatoio. “Andrea Paolucci è per me una sorta di fratello maggiore. In campo mi da sempre mille consigli ed è una guida fondamentale. Nel tempo libero è un po’ preso dalla figlia piccola, quindi ci vediamo meno. Diciamo che sono più legato a Plizzari che ha anche un’età più vicina alla mia”. Ma la vera compagnia di Alessandro Bordin è la sua Michelle. “Stiamo insieme da 3 anni e condividiamo tutto. Per altro è la mia salvezza perché io in cucina sono un disastro e se non ci fosse lei starei digiuno ogni giorno, oppure dovrei andare sempre al ristorante”. A mangiare…”pizza. È il mio piatto preferito, anche se me la posso concedere raramente perché devo seguire la dieta alimentare della squadra”. Quella con Michelle è la classica storia d’amore ai tempi dei social. “Ci siamo conosciuti su un gruppo di whatsapp di amici comuni. Mai visti prima lei ed io. Abbiamo cominciato a parlare in privato e ci siamo piaciuti subito. Praticamente da allora non ci siamo più lasciati”.

Insomma, tutto molto semplice. Come tutto quello che conta nella vita di Alessandro Bordin.

Santiago dal Sudamerica: B Marzio è a Perugia con Colombatto

Cappellino con la visiera, incedere molleggiato e sguardo sorridente. Santiago Colombatto ha il classico approccio da sudamericano che in Italia ci sta già alla grande. E’ arrivato oramai 3 anni fa ma si è ambientato alla perfezione: “ho girato tanto prima di trovare squadra, praticamente mezzo Paese. Ma poi alla fine sono ho trovato la mia sistemazione a Cagliari”. Merito di un amico molto speciale. “Sì, devo ringraziare Ivan Cordoba che mi ha preso sotto la sua ala e mi è stato di grande aiuto”. Poi sono arrivati i prestiti a Trapani e oggi a Perugia dove si è inserito subito, anche grazie ad una parlantina italiana praticamente perfetta. “La lingua è fondamentale, soprattutto per integrarsi nello spogliatoio di una squadra. La prima parola che ho imparato che non sia una parolaccia, è stata “Ciao”. E’ stato strano, perché da noi in Argentina “Ciao” si usa quando una persona saluta prima di andare via, qui invece si usa quando vai via e anche quando arrivi. Ecco perché all’inizio mi sembrava strano”.

Si è abituato presto Santiago che vive un po’ fuori Perugia insieme alla sua fidanzata ma i due vanno spesso in centro: “soprattutto per fare shopping”, aggiunge. A proposito di gusti. “A tavola mi piace un po’ tutto e con il tempo mi sono appassionato anche alla cucina italiana. La mia fidanzata è molto brava ai fornelli e la “milanesa”argentina è il suo piatto forte”. Prima dei pasti, ma anche dopo, non può mancare una “ronda di mate”. “Si tratta di una bevanda tipicamente sudamericana che si beve in gruppo. La ronda è il rombo con il quale ci si siede e tra una chiacchiera e l’altra si fa girare il mate che è un infuso di erbe e acqua calda”. Compagno di bevute nello spogliatoio del Perugia è Gonzalez. “In realtà è lui ad aver portato questa consuetudine nello spogliatoio perché per gli uruguaiani il mate è una sorta di vera e propria religione. Ma devo dire che a me è piaciuto subito e poi lo trovo un buon modo anche per fare gruppo”.

Santiago è un ragazzo che è cresciuto in fretta, e per di più lo ha fatto sempre lontano dalla famiglia. “Sono della città di Ucacha nella regione di Cordoba, ma mi sono trasferito a Buenos Aires fin da piccolo perché è lì che bisogna andare se vuoi fare il calciatore. Poi ora sono in Italia e con loro mi vedo solo quando abbiamo la possibilità di stare insieme per un periodo più lungo come nelle vacanze di Natale”. Si sentono sempre. “Almeno due o tre volte al giorno, perché altrimenti non riusciamo a stare”.

Mentre passeggia per il centro sportivo del Perugia vede i ragazzi del settore giovanile che si allenano sui campi adiacenti al Curi. “E’ una cosa bellissima, perché ricordo che anche per me allenarmi vicino alla prima squadra era uno stimolo continuo a fare meglio e a mettermi in mostra. Poi arriva la chiamata dai grandi e quel giorno dai tutto te stesso per farti notare. Oggi mi capita spesso di fermarmi qui fuori a vedere un po’ i loro allenamenti, e devo dire che se la cavano alla grandissima”.

La passeggiata nel “Percorso verde” di Perugia volge al termine. Sulla testa di Santiago torna a troneggiare il cappellino che era scomparso per le riprese e le foto. Non il sorriso e quello sguardo allegro che lo accompagnano sempre: in campo e fuori.

Ballerino? No, calciatore: B Marzio a Brescia con Coppolaro

Se fosse il protagonista di un film, Mauro Coppolaro sarebbe il GGG: il Grande Gigante Gentile. Tre aggettivi che si sposano alla perfezione con le caratteristiche del difensore del Brescia. Mauro è un ragazzone che a calcio ha iniziato a giocare un po’ per caso, anzi, sicuramente contro la volontà della mamma: “lei mi voleva ballerino”. E infatti prima di iniziare la carriera che oggi lo ha portato a vestire anche la maglia della Nazionale all’ultimo Mondiale Under 20, Mauro ha mosso più di un passo di danza: “per un anno ho fatto balli di gruppo, anzi erano proprio balli di coppia. Che potevo fare? Mia mamma ci teneva tanto”.

Poi però l’istinto ha preso il sopravvento. “Ho iniziato a giocare a calcio e dopo aver rotto un po’ di tutto, a casa se ne sono fatti una ragione”, a partire da sua madre, che oggi è una delle sue prime tifose. “Sono andato via di casa  fin da piccolo ma non ho mai perso i rapporti con nessuno di loro. Mi seguono ovunque e quando possono non si perdono una partita”. Mauro è di origini beneventane ma per seguire il suo sogno ha attraversato tutto lo Stivale: dalla “punta” (Reggio Calabria) alla “gamba” (Brescia).

La sua è una simpatia contagiosa. È gentile nei modi e ha un sorriso che dice tanto, anche molto di più delle parole. È bello sentirlo parlare di sé alla prima persona plurale. Quando dice “noi” si riferisce alla vita con la sua ragazza. “Conviviamo e facciamo tutto insieme”. Sopratutto in cucina, lì dove Mauro si sente particolarmente a proprio agio. “Non capisco perché tutti mi prendono in giro sul fatto che mi piace mangiare”, ammette ridendo. “In realtà quando sono a casa con la mia ragazza cuciniamo sempre insieme. O meglio: lei cucina, io un po’ guardò, un po’ butto la pasta, un po’ metto il sale. Però poi mangio tutto. Sopratutto quando mi prepara il ragù”. Quando parla della sua fidanzata gli brillano gli occhi, come se stessero insieme da ieri: “oramai conviviamo da un po’ ma siamo una coppia affiatatissima”.

Con un carattere così Mauro ci ha impiegato pochissimo a farsi apprezzare nello spogliatoio del Brescia dove praticamente ha legato con tutti: “siamo una bella famiglia e gli allenamenti così pesano anche meno”.

Segni particolari: rosicone. “Non mi piace perdere. Praticamente mai e a niente” ma lo dice con il suo solito sorriso grande così. “Che sia la partitella di allenamento o una sfida alla Play, devo vincere”. I compagni oramai ci hanno fatto l’abitudine e sono i primi a prenderlo in giro. Un po’ ci scherza pure lui, d’altra parte è sempre il Grande Gigante Gentile.

Il ragazzo della porta accanto: B Marzio con Varnier per raccontare Cittadella

L’allenamento lo ha sempre fatto prima ancora di arrivare al campo. Marco Varnier lo racconta con il sorriso sulle labbra. “Ogni giorno quando arrivavo a Cittadella avevo praticamente già fatto un bel po’ di lavoro” ma guai a sentirlo parlare di fatica. “Per me giocare a calcio è sempre stata una passione infinita ed è per questo che ogni sacrificio l’ho fatto con la massima serenità”. Sacrifici ne ha fatti tanti, come quello quotidiano di arrivare da Padova a Cittadella. Una sorta di collezione di mezzi di trasporto. “Bici da casa a scuola e da scuola poi l’autobus per la stazione, il treno per Cittadella e per finire una bella passeggiata fino al campo di allenamento”. Quando oggi si guarda alle spalle e ripensa alla strada (nel vero senso della parola) che ha fatto per arrivare a giocare in prima squadra si può dire davvero orgoglioso. Chilometri macinati a fin di bene, perché un anno fa è arrivato l’esordio in B: “non me lo aspettavo e ammetto che è stata un’emozione unica perché con questa maglia ci sono cresciuto e vedevo i grandi della prima squadra come dei veri e propri modelli irraggiungibili”.

Ha fatto tutta la trafila Marco e alla fine ce l’ha fatta. Una scalata partita dagli allievi del settore giovanile del Cittadella e arrivata alla gara con la Virtus Entella nello scorso campionato. “Ma per me la vera soddisfazione è stata la conferma della settimana successiva perché significava che avevo convinto l’allenatore e i compagni”. Dopo tanti anni il Cittadella è diventata una seconda famiglia. “Praticamente sto più tempo qui che a casa. Non solo i compagni ma anche i magazzinieri e tutti quelli che lavorano dietro le quinte mi trattano come un fratellino più piccolo. E’ bellissimo”.

Marco il calcio lo ha iniziato a seguire con suo padre anche se i due non condividono la stessa fede. “In casa è un derby fisso: Inter-Milan”. Lui tiene per i nerazzurri, anche se il suo idolo ha vestito la maglia rossonera. “Mi è sempre piaciuto da morire Alessandro Nesta, che poi credo sia un punto di riferimento per tutti quelli che fanno i difensori centrali”.

Anche oggi che è stabilmente un giocatore della prima squadra, Marco non ha cambiato le sue abitudini. “Vivo a Padova e frequento gli amici del liceo”. Si ferma a Cittadella solo qualche volta. “E in quei casi chiedo ospitalità a qualche compagno, tanto andiamo tutti d’accordo ed è anche divertente stare insieme fuori dal campo”.

Quando non si allena, e non è in viaggio tra Padova e Cittadella, gli piace guardare la tv o andare al cinema. “Genere preferito: fantascienza. Film preferito: Interstellar. Ma non solo”. Oltre al cinema ha anche una  passione per l’Nba: “perché è uno sport molto spettacolare”. Anche quello è faticoso eh, ma nulla a che vedere con le sue lunghe giornate su e giù per il Veneto per coronare il suo sogno di Marco Varnier che si chiama Cittadella.

Quando il calcio è questione di famiglia: B Marzio presenta Deli

Non ci pensa neanche un secondo. Francesco Deli ha le idee chiarissime: “idoli? Uno solo. Mio padre”. Il centrocampista del Foggia non ha dubbi perché a papà Claudio deve la sua passione per il calcio. E forse anche la sua carriera. Se un anno fa è stato tra i protagonisti della promozione del Foggia in B è merito di un amore per questo sport nato sui campi di provincia. “Andavo sempre a vedere le partite di mio padre e lì mi sono innamorato”.

Fare su e giù tra la sua Roma e il suo Foggia gli riesce solo quando ha qualche giorno libero in più,  diversamente è la sua famiglia ad andarlo a trovare perché dopo il calcio i legami sono al secondo posto nella sua scala dei valori. “Ho preso il numero 18 perché è associato alla data di nascita dei miei fratelli. Ecco perché non ho avuto dubbi nella scelta”. Anche loro, come lui, giocano a calcio. “Sono più piccolini di me, uno gioca nelle categorie juniores vicino casa, mentre l’altro vuole addirittura fare il portiere”. Ride perché sa che a breve potranno fare una piccola squadra di calcetto di famiglia. “Con mio padre gioco spesso d’estate, anche se lui non vuole troppo perché è rosicone e non vuole perdere. Chi è più forte? Impossibile da dire, anche se ogni tanto mi capita di incontrare qualcuno che mi dice ‘sei più forte tu’, ma io non credo”.

A Foggia, intanto, si è creato il suo piccolo mondo. “Quando ho tempo libero mi dedico al cinema. Di ogni tipo: non faccio preferenze. Anche se al primo posto metto i film d’azione americani”, ma poi c’è da accontentare anche la dolce metà. “Quando mi viene a trovare la mia fidanzata però vediamo qualche commedia italiana. Più leggera, così anche lei è contenta”. E poi c’è l’Nba. “Sono un grande appassionato di questo sport spettacolare. Condivido la passione con Agazzi e spesso ci vediamo anche le partite insieme. Senza fare le 4 del mattino, certo, ma cerchiamo di non perdercene una”. Ecco perché in camera da letto non ha la maglia di un idolo calcistico, ma di un giocatore di basket. “Sono stato sempre un fan di Minnesota Timberwolves e allo stesso tempo di Jimmy Butler, quando poi in estate è andato a giocare lì è stato il massimo”.

Quasi un anno fa Francesco è stato tra i protagonisti della promozione del Foggia in B. “Un’emozione indescrivibile. Qualcosa di unico. Ho pianto per la gioia”. E quelle non sono state le uniche lacrime della stagione scorsa. “Ammetto di essermi commosso quando Francesco Totti ha dato l’addio al calcio. Sono romano e romanista e per tutti i ragazzi della mia generazione lui è stato un modello e un punto di riferimento unico”.

Camminando per i corridoi dello stadio Zaccheria di Foggia, però, il poster in bella mostra è il suo, quello di Francesco Deli. “E’ una bellissima emozione. Ogni volta che passo qui davanti sento una grande carica. Mi emoziono tantissimo e mi sento protagonista del progetto e di questa avventura. Foggia è una piazza calda. Per me, è come stare a casa”.

Il battello per lo stadio, l’Indonesia e Buffon: B Marzio è con Audero

Da piccolo doveva essere uno particolarmente generoso. Di quei bambini che quando c’è da mettersi a disposizione è sempre il primo. Anzi, il numero uno. Una percezione che si ha subito quando si parla con Emil Audero. “In porta ci sono finito un po’ per caso”, spiega senza troppi rimpianti. “Perché tra amici mancava sempre un portiere e così una volta ci ho provato io”. Il resto è storia. Settore giovanile della Juventus, nazionali dall’Under 15 in su e oggi titolare fisso a difesa della porta del Venezia. Neopromossa sì ma con ambizioni da grande: “sono il più giovane di un gruppo decisamente più esperto di me ma non per questo mi sono mai sentito un estraneo”.
Si racconta con naturalezza mentre passeggia sui campi di allenamento di Talercio, a Mestre, lì dove ogni giorno lui e i suoi compagni si ritrovano agli ordini di Filippo Inzaghi. “La gavetta nella Juventus mi ha aiutato tanto, ma ora è bello mettersi alla prova”. Lo fa ogni settimana ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Vietato pensare, però, che le sue qualità siano solo un caso. Il lavoro occupa un ruolo fondamentale nella vita di Emil. “Praticamente la mia quotidianità è casa-campo”. Senza troppi grilli per la testa, ma allo stesso tempo sempre sorridente e pieno di vita. La sua, in particolare, si divide in due continenti. “Mia mamma è italiana ma mio papà è indonesiano. Sono nato in Indonesia e per il mio primo anno ho vissuto lì. Poi sono tornato a Torino e mi sento italiano tutti gli effetti. Potrei anche avere il doppio passaporto ma onestamente quello indonesiano non l’ho neanche chiesto”. Dai parenti del papà ci torna in vacanza, perché la famiglia ricopre per Audero un ruolo importante. “Quando posso faccio io su e giù tra Venezia e Torino per andare a trovare mia mamma e se c’è più tempo per andare fuori torno in Indonesia dal mio papà”.

E’ lì che tre anni fa si è “legato” a quello che oggi è il suo unico portafortuna. “Un braccialetto che porto al polso che mi è stato dato da un bambino sulla spiaggia. Sulle prime credevo fosse il classico laccetto che sarebbe venuto via subito, mentre è ancora qui e ci tengo tantissimo”. Lo tiene conservato sotto la felpa, e quando arriva il giorno della partita lo custodisce sotto il guanto della mano destra, come se fosse una seconda protezione per la sua porta.

Tra il campo di allenamento e casa (dove ammette di essere migliorato anche come cuoco), ha trovato un hobby decisamente particolare. “Scherzando con i compagni su Call of duty alla Play, mi è venuta l’idea di provare la mia mira balistica dal vivo e così ho iniziato a tirare con la carabina. Colpi minuscoli, sia chiaro, ma è un buon modo per scaricare la tensione”. Una passione che coltiva da solo, mentre quando è tempo di cene con gli amici si ritrova spesso con Geijo.

Venezia, però, vuol dire anche vivere una città piena di storia. “Ci ero già stato da turista prima di venire a giocare, ma ora mi capita più spesso di andare a fare una passeggiata per i canali. Con la mia fidanzata ma anche con gli amici e la famiglia. E’ davvero uno spettacolo suggestivo”. Un po’ come l’esperienza di arrivare allo stadio in battello. “Lì per lì non ci avevo mai pensato, ma quando la prima volta ci siamo imbarcati, per quella mezzora ho completamente dimenticato che stessimo andando a giocare una partita di calcio. I miei pensieri sono andati al mare, alla città e a quell’esperienza unica che stavo vivendo. Poi già la volta dopo ci avevo fatto l’abitudine ma ammetto che sia davvero un’esperienza unica”.

Un olandese dal sangue giamaicano: B Marzio con Anderson

Scusa, possiamo fare un selfie?”. Una frase che diventa un vero e proprio ritornello se ti capita di passeggiare per le strade di Bari in compagnia di Djavan Anderson. E’ vero, l’esterno olandese – di origini giamaicane – ha un look difficilmente confondibile. Merito di quei capelli neri dalle punte biondo platino che spuntano sulla testa. E Djavan non è certo uno che si tira indietro quando c’è da interagire con i tifosi.

Sì, certo”, risponde sempre con un sorriso grande così che si allarga sul volto. Lo fermano praticamente tutti, ma Djavan è un ragazzo alla mano e la parola “no” ancora non è entrata nel suo (seppur ricco) vocabolario italiano. Ecco, un’altra cosa che colpisce dell’esterno del Bari è la sua grandissima padronanza linguistica. “Ci tenevo a imparare subito la lingua, perché mi piace capire cosa dicono i miei compagni e l’allenatore”. E non è tutto. “I magazzinieri mi stanno anche insegnando il dialetto barese. Sono ottimi professori”. Parola d’ordine “Panzerot’”. L’ha imparata praticamente subito, come tutto quello che gira attorno alla cucina locale. “Orecchiette, certo, ma soprattutto pesce. Mi piace tantissimo e qui a Bari lo cucinano in maniera speciale”.

D’altra parte il rapporto con la città è unico. “L’estate scorsa ero qui in vacanza e sono passato dalle parti del San Nicola. Così la mia ragazza, guardando lo stadio mi ha detto: ‘Che bello, sarebbe stupendo se tu venissi a giocare qui’. In quel momento non c’era stato ancora alcun contatto con la società, ma quando mi hanno chiamato ed ho assistito ad una gara del Bari dal vivo mi sono definitivamente innamorato”. E da lì in avanti è stato subito amore. Reciproco. Perché anche Bari si è innamorata di questo ragazzone che corre su e giù sulla fascia e sa anche fare gol.

Difficile essere scettici di Djavan che arriva da una famiglia che ha lo sport nel Dna. “Siamo cinque fratelli, tutti maschi. E siamo praticamente tutti sportivi. Merito di mio padre che è un grande sportivo. Ha una palestra nel Texas dove allena i suoi ragazzi nelle arti marziali”. E non è tutto. “Ho un fratello che fa karatè in Germania e un altro che gioca a basket in Spagna ed è anche in nazionale inglese”. Insomma, una famiglia che ruota attorno allo sport.

Ma per Djavan tutto gira attorno alla famiglia. “Non sono mai stato un appassionato di tatuaggi, poi mia mamma si è ammalata gravemente e dopo che è guarita ho deciso di dedicarne uno a lei. E da lì ne ho fatto anche un altro con una frase che mi diceva sempre mio padre”. Entrambi sulle caviglie, e poi basta, perché per lui devono solo essere legati a qualcosa. E la vita di Anderson ha sempre un senso ben preciso. Come quando torna in Olanda, nella sua Amsterdam. “E’ l’occasione per me coltivare la mia passione per il pianoforte”, sì avete capito bene. “Ho iniziato a studiare piano classico quando avevo 8 anni e da allora è stato amore a prima vista”, anzi a prima nota. “Ogni volta che torno a casa passo almeno 3 ore al giorno a suonare, anche perché qui a Bari mi manca tantissimo”.

Quello che invece non gli manca affatto è il sole. “E anche il mare. Quando posso vivo la città e i suoi dintorni che sono bellissimi: Polignano a mare, Trani e tutte le località balneari qui vicino. Sempre con la mia fidanzata con la quale stiamo insieme da tre anni”. Anche lei si è abituata al calore della gente di Bari che già adora il suo Djavan. Sorriso, ciuffi biondi e parlantina contagiosa.